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Quale affettività per i consacrati?


di Luca Balugani

 

"Tredici femmine, undici maschi, un prete e una suora": è questa la telefonata di un gruppo parrocchiale ad una casa di ospitalità. Evidentemente dietro questo linguaggio c'è il desiderio di distinguere che i primi sono giovani, mentre i consacrati avrebbero bisogno di qualche attenzione diversa; o che i giovani non sono privi di educatori. Ma accanto a queste interpretazioni ve n'è un'altra, radicabile in una domanda di natura differente: i consacrati celibi hanno una loro affettività?

In visita a una scuola di Genova, gli studenti hanno rivolto al loro vescovo, il card. Angelo Bagnasco, una domanda circa i suoi trascorsi giovanili. Con molta prudenza e una certa cripticità, forse presagendo che la notizia sarebbe stata lanciata dalle agenzie di stampa, il cardinale ha risposto di aver avuto una "simpatia" per il "mondo femminile" prima di entrare in seminario. E, com'era prevedibile, la notizia è stata ripresa dai giornali italiani, quasi fosse qualcosa di sorprendente. È proprio questa sorpresa a far sorgere la riflessione che al di fuori del mondo ecclesiale si tenda a equiparare castità e anaffettività. L'anaffettività è una categoria attraverso la quale viene descritto uno stato di freddezza affettiva, che si manifesta anche nelle posture e nell'uso del corpo, generalmente provocata da esperienze infantili di abbandono prematuro o di privazione dell'affetto parentale. Senza arrivare a questo eccesso, la psicologia identifica anche un meccanismo di difesa, denominato "isolamento dell'affetto", che consiste nella separazione delle idee dai sentimenti originariamente associati. È quella modalità difensiva che fa perdere il contatto col sentimento connesso a una certa idea, per cui una persona può descrivere accuratamente un evento traumatico senza più avvertirne il carico emotivo. Il risultato è quello di somigliare quasi a un "robot" e i conoscenti la giudicano come una persona "lucida e fredda".

Senza perciò arrivare all'estremo dell'anaffettività, tante volte capita di incontrare nella vita consacrata e nei preti persone eccessivamente distaccate. A volte sono le comunità stesse oppure la formazione a esigere questo tipo di freddezza, specialmente quando si raccomanda (-va) che non si instaurino "amicizie particolari" e che ci sia un egualitarismo di affetti verso tutti i parrocchiani.

L'accusa rivolta a Gesù. È perciò possibile che, nella mentalità e nel vocabolario mediatico, la castità sia considerata come un'armatura affettiva di cui si è rivestito il celibe per il Regno oppure un'anestesia che gli è stata iniettata. Questa opinione non sorprende più di tanto un attento lettore dei vangeli, perché pure a Gesù era stata attribuita l'eunuchia, quasi egli fosse un impotente, e questo proprio a causa della sua condizione celibataria. In altre parole, Gesù, in quanto celibe, era considerato un "minorato". Di qui la sua risposta chiarificatrice, volta a individuare tre tipi di eunuchia: quella che un individuo si ritrova per nascita (genetica), quella che viene causata dagli uomini (evolutiva o violenta) e, infine, quella che è in vista del regno dei cieli e che sembra garantire la presenza di uno spazio nel quale il celibe può orientare la propria affettività. Se la prima infatti è innata e la seconda è subìta, la terza è frutto di una scelta ben precisa compiuta dal soggetto stesso: «si sono resi eunuchi per il regno dei cieli» (Mt 19,12). Eunuchi per il regno di Dio: non per quello post-mortem, ma per quello che è già tra noi.

Il primo dato evidente è che la scelta celibataria rientra sì in una logica di privazione, ma non di coartazione. Il celibe porta la ferita della solitudine, rinuncia all'esercizio della genitalità, ma non è un impotente. Nella sua prima enciclica, Deus caritas est, papa Benedetto XVI ha ricordato la connessione tra l'eros inteso come amore mondano e la caritas intesa come amore che viene da Dio. Se il primo «inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente - fascinazione per la grande promessa di felicità - nell'avvicinarsi poi all'altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà "esserci per" l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso; altrimenti l'eros decade e perde anche la sua stessa natura. D'altra parte, l'uomo non può neanche vivere esclusivamente nell'amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono» (n. 7).

Poiché la grazia suppone la natura, l'amore trascendente ha bisogno di radicarsi in una capacità di amore umano nel quale entra a pieno titolo anche la sessualità. Colui che intraprende un cammino celibatario è chiamato a rispettare l'invito del Signore: non è celibe per patologia, né lo diventa per azioni provocate dagli uomini, ma soltanto in una prospettiva di libertà che richiede la maggiore responsabilità possibile. Resta nel presbitero, come nei consacrati, la pulsione sessuale, la libido, che nella prospettiva cristiana non può essere sublimata. Freud amava invece parlare di "sublimazione", intendendo con essa la canalizzazione della libido verso obiettivi socialmente accettabili; essa sarebbe perciò una sorta di spostamento dell'energia sessuale, che conserverebbe la propria caratteristica, ma verrebbe orientata ad altro oggetto. Questo tipo di visione, difficile da conciliare con la prospettiva cristiana, suppone che non esistano altre energie all'infuori di quelle sessuali; che l'amore coniugale stesso non possa essere in vista di un arricchimento della coppia, ma soltanto il contenitore degli impulsi reciproci; e che i valori non possano essere preminenti e determinanti nelle scelte, ma sarebbero semplicemente un rivestimento della dimensione sessuale. Il celibato è invece una scelta volontaria, ispirata da una dimensione valoriale.

La sessualità, implicata e legata al celibato, non va tuttavia ridotta alla genitalità. Essa abbraccia l'intera persona, soprattutto nella sua dimensione oblativa. Qui entrano in gioco due ambiti antropologicamente rilevanti: l'affettività e la relazionalità.

L'affettività. Lo sviluppo affettivo di una persona è la linea evolutiva più complicata da descrivere e da studiare. Le emozioni sono un'esperienza molto complessa, che si colloca a un livello intermedio tra l'organismo e l'ambiente. In generale, l'emozione è una situazione di allontanamento dallo stato di quiete dell'organismo, con una serie di cambiamenti:

  • a livello fisiologico: entrano in gioco il sistema nervoso centrale (non volontario) e il sistema endocrino (che ha a che fare con i livelli di stress ed ansia);

  • a livello cognitivo: la valutazione cognitiva attribuisce agli oggetti e alle persone dei significati, che poi generano reazioni nel soggetto;

  • a livello motivazionale in quanto gli eventi richiedono dalla persona una reazione di fronte a ciò che ha generato un'emozione;

  • infine a livello espressivo-comunicativo: ogni emozione fondamentale presenta una sua configurazione e richiede modalità espressive.

Come si può facilmente evincere da queste semplici nozioni, la dimensione affettiva permea praticamente ogni ambito vitale di una persona. La comunicazione, la riflessione e la relazione implicano una perturbazione nella quiete affettiva; e questo accade anche nell'ambito pastorale, nell'evangelizzazione e nella liturgia. Come il corpo è sempre coinvolto nelle azioni umane, così la psiche e con essa la dimensione affettiva di una persona. In tal senso è solo per l'attuazione di meccanismi difensivi che si può arrivare a una freddezza, a un'impassibilità da parte di un consacrato. Al contrario «il celibato trova la sua radice anzitutto nell'affetto o nella facoltà dell'amore, dove l'esistenza decide di manifestarsi come dono». Saper amare è avere la capacità di una benevolenza gratuita e di fare un passo anche prima che l'altro l'abbia meritato; è avere la capacità di essere attenti alle individualità, senza per questo scadere in esclusivismi; è avere la capacità di guidare in maniera ferma, mentre si accompagnano le persone, senza scadere in atteggiamenti solo consolatori.

La relazione. La riflessione sull'amore conduce alla questione della relazione; infatti esiste nell'amore una particolare circolarità tra l'amare e l'essere amati: «Se è vero che la certezza d'essere amato fonda la sicurezza di poter amare e dà la forza corrispondente, allo stesso modo possiamo dire che la certezza di poter amare fonda la certezza d'essere amato». Se pertanto è possibile amare proprio perché ci si scopre amati e se l'amore vissuto rinforza la certezza della propria amabilità, ne consegue che lo spazio della relazione è indispensabile per vivere una sessualità matura. Ma le relazioni corrono sempre il rischio della parzialità: di fare spazio cioè all'altro solo nella misura in cui mi è utile o di offrirmi all'altro non totalmente, ma trattenendo delle riserve. Chi vive la scelta del celibato, solo a Dio potrà dire: "Mio tutto"; allo stesso tempo, però, la dedizione totale a Dio dovrà tradursi in un'offerta della propria vita agli altri senza reticenze e riserve di vario genere.

Considerazioni conclusive. Non solo i celibi, ma più in generale i cristiani, perderebbero molto della loro credibilità, non potrebbero testimoniare una vita "altra", senza riuscire a vivere relazioni sane, di comunione e di fraternità. Questa vita di relazioni va a coniugarsi con la solitudine esistenziale, che viene evidenziata dalla scelta celibataria. Si potrebbe allora parlare di un'altra circolarità: quella tra solitudine e relazione, che si richiamano e si preservano a vicenda, evitando da una parte l'isolamento e dall'altra la superficialità. Nella relazione si affina inoltre la capacità di discernimento che conduce a riconoscere specificità e originalità delle persone, così come degli ambienti ecclesiali. Le parrocchie non sono tutte uguali, come le persone non sono tutte uguali: entrare in relazione è anzitutto accogliere l'altro per quello che è. Chi è rigido tende a inquadrare l'altro in schemi inflessibili; e può manipolarlo, per far coincidere l'altro con l'immagine che si ha di lui. L'esperienza pastorale è cammino verso la libertà; ma per condurre alla libertà l'altro, occorre che anche il celibe lo sia.

 

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