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Guerre giuste e ingiuste



Professor Walzer, il dibattito sulla guerra giusta affonda le proprie radici nei classici della filosofia morale e politica. Può descriverci a grandi linee la concezione classica della guerra giusta? 


La riflessione sulla guerra giusta, ripresa negli Stati Uniti in occasione della guerra nel Vietnam, risale a molto tempo addietro ed appare in forme e linguaggi differenti in ogni cultura complessa. La concezione classica è quella cattolica medioevale originatasi dalla cosiddetta «teologia morale» . Essa si indirizza all'esperienza di coloro che, essendo impegnati nella guerra in qualità di leader politici o di soldati, sono costretti a prendere continuamente delle decisioni e a cercare una auto-giustificazione morale. Nessun leader politico, infatti, può mandare dei giovani ad uccidere ed essere uccisi, senza fornire loro delle ragioni morali, senza assicurarli che agiscono per una giusta causa.


Per quanto concerne la legittimità, ovvero la giustificazione delle cause e delle motivazioni della guerra, la dottrina classica ricorre al concetto di «autodifesa». La teoria della guerra giusta muove da un'analogia con la nostra comune comprensione del diritto individuale all'autodifesa. Così come è giusto che io difenda me stesso se, per strada, sono improvvisamente attaccato da uno rapinatore o da un assassino, oppure se vado in soccorso di qualcun altro vittima di un'aggressione, è pure giusto che uno stato muova guerra ad un altro o per difendersi da un suo attacco o per difendere un altro stato che viene aggredito. Una guerra è giusta, quindi, qualora scaturisca dall'esigenza di difendersi o di difendere chi è stato assalito. Lo ius in bello, invece, cerca di rispondere a domande, che ogni soldato è costretto a porsi, riguardanti i limiti dell'azione di guerra, e stabilisce che i civili rimangano fuori dal combattimento.


2 Lo ius ad bellum indica anche quali sono le mosse e le possibilità che devono essere esplorate prima di entrare effettivamente in guerra? 

Da un certo punto di vista la guerra è diversa dall'autodifesa individuale perché è un'attività che, una volta cominciata, diventa difficilmente controllabile. Essa implica la mobilitazione di un grande numero di persone, richiede catene di comando che spesso non sono molto efficienti, comporta battaglie con un numero di partecipanti troppo alto per essere tenuto sotto controllo, produce incidenti brutali che hanno luogo continuamente nel corso di ogni scontro. Per queste ragioni, deve esserci una profonda riluttanza ad iniziare una guerra e, quindi, molti degli argomenti riguardanti lo ius ad bellum sono destinati a specificare la lunga serie di tentativi da intraprendere per fronteggiare l'aggressione con mezzi non violenti prima di rispondere con la forza.
Personalmente non concordo con coloro che sostengono che la guerra sia soltanto la «risorsa estrema». A ben vedere, infatti, che si dia un «estremo» è un'idea metafisica: non si raggiunge mai l'«estremo», si può sempre trovare un'altra giustificazione all'aggressore, si può sempre richiedere un altro incontro o inviare un'altra nota diplomatica.
La giustizia richiede che il ricorso alla forza sia legittimo soltanto qualora tutte le alternative ragionevoli, che abbiano qualche prospettiva di successo, siano state esaurite.



3 Lei considera il suo libro intitolato Guerre giuste e guerre ingiuste come «una apologia delle nostre trascuratezze occasionali e una rivendicazione delle nostre battaglie fondamentali». Cosa intendeva dire con quelle parole? 

Il mio libro era una sorta di riflessione in tranquillità su una esperienza molto agitata, nella quale ebbi una piccola parte insieme a molti altri, cioè l'opposizione interna alla guerra americana in Vietnam.
Quando discutevamo con i nostri concittadini, per opporci alla guerra e argomentare l'illegittimità del coinvolgimento americano facevamo uso di un comune linguaggio morale, ricorrendo a concetti quali «aggressione», «immunità di chi non combatte», ecc.. Si trattava di un intero vocabolario, di un insieme di concetti che avevamo ereditato, ma su cui non avevamo mai realmente riflettuto.
Solo più tardi, iniziai a pensare che esso fosse una risorsa da sviluppare e sistematizzare per poter eventualmente esser usata in occasioni future. Nell'introduzione al libro, ho messo in rilevo che questo linguaggio viene spesso usato, ad esempio, in discussioni politiche animate, ma senza averne una consapevolezza esplicita. L'essere trascurati nell'argomentare è, analogamente alla crudeltà in battaglia, qualcosa che accade nei momenti caldi.
Dopo che gli animi si furono raffreddati e si poté ragionare con calma, intrapresi il tentativo di dare una spiegazione chiara della dottrina della «guerra giusta ed ingiusta» che rendesse ragione della nostra opposizione.
Il mio punto di partenza è stato dunque l'esperienza di ascoltare me stesso mentre parlavo della guerra americana. Mi sono accorto, in tal modo, che questo linguaggio dell'argomentazione morale, che avevamo ereditato, rifletteva una lunga esperienza di uomini e donne di differenti culture con la pratica effettiva della guerra, e recava in sé una sorta di saggezza riguardo sia a ciò che va detto, sia a ciò che va fatto in simili occasioni. A ben vedere, tutta la moralità ci arriva in questa forma, e cioè attraverso un linguaggio ereditato e una tradizione di argomentazione e discussione. Credo che si tratti di ciò che Thomas Jefferson chiamò «il decente rispetto per le opinioni del genere umano».
Questo modo di parlare della guerra non è fantasioso, bensì è molto vicino alla realtà, scaturisce da una esperienza effettiva. Col mio lavoro, ho cercato di rendere disponibile quest'esperienza e la saggezza che ne deriva agli amici più vicini, ai colleghi ed ai concittadini, esprimendomi nel linguaggio morale del mio tempo e del mio luogo, ovvero col linguaggio dei diritti.
Ho parlato del diritto all'integrità territoriale e alla sovranità nonché del diritto a non essere attaccati fondando l'immunità di chi non combatte sulla dottrina dei diritti individuali alla vita e alla libertà. Non credo affatto che questo sia l'unico linguaggio in cui si possano esprimere queste idee e non dubito, quindi, che, ad esempio, l'immunità possa essere fondata diversamente. Io ho cercato semplicemente, rendendo disponibile l'esperienza della guerra e dell'argomentare intorno ad essa, di invitare i miei concittadini a convenire in futuro su questo argomento.



4 Lei e gli altri americani che si opponevano alla guerra nel Vietnam eravate accusati di essere antipatriottici o, qualche volta, antiamericani. Quale è stata la Sua replica?

Il patriottismo è un amore, un impegno, una fedeltà verso una comunità politica e non la passiva accettazione delle decisioni prese dai suoi leaders . La comunità è differente dal suo governo ed ha valori differenti dalle politiche che i suoi leader perseguono. Opponendoci alla guerra nel Vietnam, noi ricordavamo ai nostri concittadini i loro valori, indicavamo loro il ruolo che potevano svolgere nel mondo e lo paragonavamo a quello che stavano effettivamente svolgendo.
Ho sempre pensato che i critici della società, e non solo quelli con cui mi trovo d'accordo, rendano un servizio alla gente. Chi critica il mio comportamento o le mie argomentazioni, mi sta rendendo un servizio. Si tratta di un servizio che può essere reso, sebbene ciò non avvenga sempre, al di fuori della fedeltà e dell'impegno.
Il patriottismo è certamente una virtù ma può essere adoperato male, come, a mio avviso, era adoperato male da coloro che identificavano, in chi sosteneva la guerra nel Vietnam, un americano dotato di spirito patriottico. Per il patriottismo vale la stessa osservazione che si può fare nei confronti di altre virtù come l'amore e l'amicizia: si può amare in un modo anormale e essere amico di una persona scorretta per bassi motivi.
Sono convinto, comunque, che il sentirsi impegnati nella comunità politica in cui si vive sia una virtù, e trovo difficile immaginare una effettiva comunità di cittadini e una reale democrazia senza l'impegno richiesto dal patriottismo.




5 Lei ha avuto modo di dire che «non c'è nessun mondo di cui essere cittadini». Che cosa ha voluto intendere con ciò?

Così come non posso essere amico di ogni uomo e di ogni donna del pianeta, non posso nemmeno essere concittadino di tutti. Le comunità sono necessariamente particolari, sono creazioni storiche che avvengono nel tempo e che generano una fedeltà che è intimamente connessa con la loro particolarità e longevità. Esse non sono comunità istantanee, sono esistite per lunghi periodi di tempo, sono state - per così dire - tramandate di padre in figlio. Solo all'interno di comunità di questo tipo, che, come tali, possono essere di differenti generi, noi acquisiamo la nostra identità politica e veniamo a sviluppare un senso di fedeltà.
L'universo, la terra, il mondo, non sono affatto delle comunità. Una eventuale comunità politica che si dovesse costituire in futuro a causa dell'interdipendenza economica o della crisi ambientale sarà talmente grande che è difficile immaginarla altrimenti che come una sistemazione strumentale per qualche scopo. In un contesto del genere, un impegno più profondo richiederà, comunque, una certa decentralizzazione e una politica più particolaristica.
Il mondo, quindi, non è il terreno del mio impegno. Con ciò non voglio dire che io non mi senta responsabile verso la sua sopravvivenza come pianeta abitabile, e non abbia impegni verso i movimenti sociali e i partiti politici che lottano a tale scopo.
A mio avviso, i più profondi sentimenti di attaccamento che abbiamo stanno diventando - o meglio, devono necessariamente essere - più stretti dell'intero globo. Non a caso, stanno rinascendo le più diverse forme di particolarismo. Credo che il contenuto umano dei nuovi tribalismi e nazionalismi consista, in fondo, in una richiesta di libertà politica autoregolata. In tutti questi «-ismi» si annida l'esigenza di una democrazia nella politica internazionale, ovvero di porre fine all'imperialismo, all'egemonia, alla dominazione.
L'autodeterminazione è un valore universale, ma di genere molto speciale. Asserendo, infatti, il valore dell'autodeterminazione, si richiede anche la libertà di tutti i differenti soggetti che si autodeterminano, e non si possono non riconoscere, quindi, molti generi diversi di società. Dal mio punto di vista, l'universalismo va affermato, ma come «universalismo ripetitivo». Esso cioè deve «ripetere» le differenze e proteggere ogni membro dell'umanità nella sua particolarità.



6 L'opposizione alla guerra nel Vietnam, non è stato un fatto che ha coinvolto soltanto gli Stati Uniti, ma ha trovato adesioni in tutto il mondo. Come spiega questo fenomeno?

Molte importanti esperienze umane sono indubbiamente condivise da tutti. Posso sentirmi vicino agli esseri umani in ogni parte del mondo quando essi provano le gioie della nascita di un bambino o quelle di un matrimonio, o sono afflitti dalla tristezza per la perdita di qualcosa o per la morte di qualcuno. Per quanto particolaristiche possano essere le celebrazioni di un matrimonio, per quanto variegati, i costumi adottati ai funerali dalle differenti comunità, il senso di queste esperienze è ugualmente condiviso da tutti gli esseri umani.
Mi sembra che il desiderio di autodeterminazione sia connaturato agli esseri umani da quando sono sorte comunità - siano esse tribù, nazioni, gruppi etnici o religiosi - e da quando ci sono stati aggressori, imperialisti e conquistatori. Il sentimento dell'essere liberi, sebbene possa essere variamente interpretato al livello individuale, quando sorge nella vita collettiva, si identifica, per tutti, con la volontà di non essere assoggettati dagli stranieri.
L'atteggiamento simpatetico con i Viet-Cong o con i Nord Vietnamiti, durante la guerra nel Vietnam, ha avuto in larga misura a che fare con il riconoscimento di questo sentimento. Ciò che spinge i vietnamiti a volersi governare da soli è lo stesso impulso che induce i francesi o gli italiani a fare altrettanto, anche se, verosimilmente, nelle diverse situazioni, diverse sono le possibilità concrete di rovesciare le rispettive pratiche di governo.
Analogamente, penso che l'idea di giustizia nella guerra fuoriesca dai confini di una singola nazione e sia, invece, una dottrina che, da quando sono state combattute guerre tra i diversi Paesi e le differenti culture, si sia andata sempre più sviluppando, dando così luogo a quelle leggi dell'ospitalità e del commercio che consentono a persone appartenenti a differenti società di comunicare tra loro. Per questa ragione, un bombardamento su un villaggio contadino, nel quale verranno sicuramente uccisi dei civili perché è impossibile prendere di mira direttamente i soldati, sarà sempre condannato da qualsiasi comunità umana.





7 Professor Walzer, nella prefazione del 1991 al Suo libro, Lei sostiene che, durante la guerra del Golfo, la terminologia della «guerra giusta» ha giocato un ruolo importante ed ha addirittura influito sul modo in cui essa è stata condotta. Lei, però, non manca di notare che in questo conflitto si sono verificate delle aperte violazioni dello ius in bello. Può riferirci la Sua tesi in proposito?

Credo che sia del tutto normale che una teoria morale risuoni nei discorsi dei leader politici e che, invece, sarebbe molto sorprendente se essa non si riflettesse mai in modo profondo nel loro comportamento. Nel caso della guerra del Golfo, l'uso sistematico degli argomenti a favore della guerra giusta da parte dei leader politici e militari della coalizione, soprattutto degli americani, si è riflesso, anche se, dal mio punto di vista, in maniera molto incompleta, sulla condotta della guerra. Ciò suggerisce che c'è la necessità di combattere le guerre sotto il controllo internazionale, soprattutto là dove è necessario mobilitare l'aiuto di diversi Paesi. In questi casi, infatti, essendo impossibile appellarsi allo sciovinismo, all'orgoglio nazionale che sono alla radice del nazionalismo , ci si deve richiamare al principio morale, e ciò, sebbene produca per lo più ipocrisia, può, talvolta, contribuire ad affermare dei valori.
Sebbene non si sappia ancora molto riguardo a ciò che è realmente accaduto durante la guerra del Golfo, ho espresso molte riserve, sia durante il suo svolgimento che dopo, circa il modo in cui essa è stata condotta. Ho creduto che alcune decisioni che hanno dato forma alla campagna strategica del bombardamento, prese ufficialmente dalla coalizione, ma, in realtà, espressione della volontà americana, siano state criminalmente sbagliate.
Come noto, la guerra, prima di iniziare a terra, fu combattuta per la maggior parte del tempo in cielo, e si diresse per lo più alle infrastrutture civili della società irachena: le centrali elettriche, gli impianti di purificazione dell'acqua, i centri di comunicazione, i ponti, le strade. Si tratta di obiettivi che solo in alcuni casi possono essere considerati legittimi, là dove, ad esempio, si è trattato di ponti che consentivano i rifornimenti ad una armata sul campo. Al contrario, la distruzione di centrali elettriche o di impianti per il rifornimento d'acqua costituisce un attacco ingiustificato alla società. In questi casi, in cui il danno militare è collaterale a quello sull'intera società, la popolazione corre dei rischi - come, ad esempio, un'epidemia da colera - che, colpendo indiscriminatamente civili e militari, non rientrano affatto tra i casi previsti e giustificati dallo ius in bello. 





8 Qual è la sua opinione riguardo al valore morale e politico del pacifismo?

I pacifisti scorgono nella teoria della guerra giusta un modo di argomentare che, definendo i limiti e i modi entro i quali la guerra va combattuta, finisce con l'accettarla e giustificarla. Personalmente, essendo cresciuto durante l'ultimo conflitto mondiale, credo che ci siano delle occasioni nella storia umana nelle quali è molto importante essere preparati a combattere.
Ci sono forme di aggressione, dominazione e tirannia a cui è necessario opporsi con la forza, perché non esiste nessun altro modo di opporvisi, e non è possibile sopportarle neanche per un breve periodo. In un certo senso, quindi, io sono un nemico politico del pacifismo perché in esso vedo il rifiuto ad impegnarsi contro la tirannia e l'oppressione nell'unico modo in cui, talvolta, è possibile farlo. D'altra parte, riconosco che i pacifisti hanno il merito di dare forza a un ideale che tutti condividiamo, quello di un mondo dove la politica sostituisca la guerra. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di una mera utopia . Pacifista è chi crede, forse non a torto, che ciò sia possibile prima ancora che si realizzi.
Dopo il crollo del muro di Berlino, si è creduto che si andasse incontro ad un futuro di pace. Dopo pochi anni, invece, politici e filosofi hanno dichiarato la loro nostalgia per la situazione politica prodotta dalla guerra fredda che, a loro parere, garantiva almeno la pace, e c'è chi parla oltre che ad una «guerra giusta», di una «pace giusta»?
In realtà, nel lungo periodo della guerra fredda sono scoppiati terribili conflitti in Corea e in Vietnam, in differenti parti dell'America Centrale, nel Medioriente, in Afghanistan, in India e in Pakistan. Il cosiddetto «equilibrio del terrore» manteneva la pace in Europa, non certo nel resto del mondo. Credo, quindi, che non dovremmo lamentarci della fine della guerra fredda, sebbene, oggi, particolarmente in Europa, gli assestamenti risultano essere molto difficili.
Penso alla pace «giusta»» in un linguaggio che è tratto dall'esperienza europea del XVI e del XVII secolo, poiché mi sembra che ci siano alcune significative somiglianze tra le guerre religiose di quel periodo e i conflitti nazionalisti del nostro tempo. Le guerre religiose ebbero fine con la dottrina della tolleranza , che non aboliva le differenze di fede, ma si limitava a stabilire dei confini, a fornire spazi entro i quali le comunità dei credenti potessero praticare la loro religione, produrre le loro istituzioni senza paura.
Oggi, dovremmo cercare l'equivalente della tolleranza religiosa nel contesto del conflitto nazionale, definendo e proteggendo degli spazi. Tali spazi dovranno essere di vario tipo, possono identificarsi con le regioni autonome, così come con gli Stati sovrani, oppure prendere la forma del pluralismo culturale, delle associazioni volontarie nella società civile, e, quindi, solo in alcuni casi comportano necessariamente una separazione politica e un'indipendenza statale. Occorre proteggere gli spazi con confini sicuri per tutti i gruppi nazionali, religiosi, etnici che sentono la necessità di questo tipo di sicurezza.
Non vedo un'altra forma equivalente alla tolleranza che non sia la definizione di confini, perché il nostro è un mondo in cui i buoni steccati fanno buon vicinato. I principi della pace, insomma, coincidono con quelli dell'autodeterminazione. Sottolineo che questi ultimi hanno molte possibili realizzazioni, non una sola. Se ogni gruppo etnico, ogni comunità religiosa richiedesse uno stato sovrano insorgerebbero difficoltà insormontabili. Da molte parti del mondo, però, giunge testimonianza che esistono modi di fornire spazio e sicurezza all'interno degli stati multinazionali attraverso l'autonomia regionale e il pluralismo culturale. La via verso la pace è dunque quella che passa per la definizione di confini che rispondano alle diffuse esigenze di autodeterminazione.

U.S.A., Princeton University, 25 maggio 1992

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