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Questioni aperte: la comunione ai divorziati risposati



Al ministro ordinato si presenta un fedele il quale ha maturato, con l’aiuto di Dio e di alcuni credenti, una chiara consapevolezza della propria situazione morale e spirituale. Dieci anni addietro egli iniziò, dopo un certo degrado interiore e affettivo, a tradire la moglie, la quale invece non cessò di rimanergli fedele. A un certo punto decise di abbandonare moglie e figlio, di accompagnarsi con un’altra donna e infine di divorziare, per passare con la seconda donna a nozze civili. Da queste nacque dopo qualche anno un figlio.

L’uomo ora assolve con precisione agli impegni finanziari derivati dal matrimonio, e partecipa, per quanto possibile, alla educazione del primo figlio. Egli comincia a riapprezzare il Vangelo, col quale era entrato in contrasto, nonostante la buona educazione cristiana ricevuta. Ne riconosce profondità e valore anche a proposito del matrimonio. Da tempo egli nutre un profondo sentimento di pentimento e volontà di riconciliazione con Dio e la Chiesa.

Confrontato dal ministro con le richieste della Chiesa in ordine alla riconciliazione sacramentale, egli fa presente che la sua condizione di vita per molti aspetti importanti non è reversibile.

Non lo è affettivamente, per i legami nuovi che ha di propria iniziativa contratto: egli riconosce onestamente di non riuscire a pensare se stesso nella condizione del single.

Non lo è moralmente, in quanto la compagna e il secondo figlio dipendono effettivamente ed emotivamente da lui, che liberamente ha preso l’iniziativa di vincolarsi ad essi. 

Egli confessa ancora di non poter assicurare, nonostante un sincero impegno personale, una continenza sessuale permanente con la compagna con la quale ha iniziato una relazione personale seria; anche e anzitutto perché la compagna chiede di continuare ad alimentare una normale affettività e un sano esercizio della sessualità, come pure di generare un altro figlio. L’idea di troncare le relazioni sessuali, cosa di cui peraltro egli non aveva mai parlato prima di riprendere in tempi recenti un cammino di vita cristiana, trova lei totalmente contraria, come pure la negazione a priori della generazione di un secondo figlio. L’uomo stesso onestamente ammette di essere in una condizione affettiva simile, per quanto riconosca e assuma fino in fondo le proprie colpe e responsabilità verso il matrimonio del cui fallimento si giudica principale artefice.

Ecco un possibile percorso ulteriore. Il sacerdote lo accoglie sottolineando quanto segue.

Egli accetta di buon grado che il fedele cominci a comprendere il proprio peccato, e intenda sinceramente convertire il proprio cuore, e lo incoraggia a proseguire sulla via del pentimento e del rinascimento.

Gli ricorda che la prima unione fu e rimane l’unico matrimonio della vita. E di conseguenza non è pensabile una seconda unione quale sacramento dell’amore di Cristo per la Chiesa.

Propone quindi un cammino di riconciliazione con Dio e con la Chiesa.

Il fedele irregolare deve sottoporre la propria buona volontà alla disciplina penitenziale della Chiesa secondo le forme indicate più avanti.

Inoltre la sua riconciliazione e riammissione alla comunione eucaristica al termine o a un certo stadio del cammino penitenziale esige naturalmente l’adempimento dei doveri verso le persone coinvolte nel matrimonio e recentemente nella nuova relazione.

Tuttavia la sua riconciliazione futura in nessun modo significa:

a) che il suo matrimonio sia dichiarato giuridicamente o riconosciuto moralmente nullo, o comunque non più sussistente nel senso di spianare la via ad un secondo matrimonio;

b) che la presente unione abbia validità e qualità precisamente matrimoniale e sacramentale. Essa, come atto di quell’uomo che l’ha voluta e compiuta, porta il segno del suo peccato a modo di pena, anche se, avvenuta la riconciliazione, non porta più il peccato come colpa.

Pertanto la remissione del peccato e la comunione eucaristica vengono concesse, come scelta sub-ottimale rispetto all’impegno richiesto ai cristiani nel matrimonio, a queste condizioni:

a) riconoscimento della gravità del peccato dell’infedeltà e della intangibilità dell’unico matrimonio;

b) accoglimento della penitenza proposta dal sacerdote;

c) serietà piena dell’impegno nell’unione presente, che coinvolge l’intera vita di persone quali la convivente e i figli.

Insomma, la prassi riconciliatrice della Chiesa non esige ‘ex post’, in questo caso dopo dieci anni, né la rottura della seconda convivenza come coabitazione effettiva, comunione affettiva e unione sessuale, né lo status di coabitazione a modo di amicizia [senza l’esercizio della sessualità].

Ciò non significa l’accettazione della convivenza da parte della Chiesa come condizione normale della vita cristiana, ossia come stato pubblico nella Chiesa. Significa solo – alle condizioni dette – il perdono del peccato compiuto e la riammissione alla comunione eucaristica.

Insomma, la Chiesa subisce ‘ex post’ la condizione presente del fedele irregolare, – condizione non modificabile se non per dismissione delle nuove responsabilità assunte, mentre peraltro non viene neppure ripristinato il matrimonio iniziale – ma non la benedice.

La prassi qui proposta verrebbe quindi a distinguere tra validità del matrimonio – che resta unico – e condizioni per la riconciliazione sacramentale.

Mantenendo intatta la validità del matrimonio, mutano in parte [rispetto alla disciplina vigente] solo le condizioni di accesso ai sacramenti, che tengono conto di alcuni aspetti irreversibili (non in senso fisico, ma morale: si tratta di veri e propri obblighi morali assunti e non dismissibili) di una situazione che coinvolge altre persone, come appunto quella di relazioni affettive e sessuali e di generazione di figli: situazione che l’interessato non può più, per la struttura intrinseca di quelle relazioni, regolare tra sé e sé soltanto.

Quanto al cammino penitenziale, esso potrebbe cominciare prima della celebrazione del sacramento della penitenza, con un colloquio spirituale.

Prevede ovviamente l’intervento di un sacerdote il quale fa riferimento al vescovo o a un suo delegato penitenziere.

Richiede inoltre una certa durata da stabilire con sapienza e comprende alcune delle seguenti opere penitenziali, secondo il tradizionale triplice modello di preghiera, digiuno ed elemosina, ritmate su una scadenza giornaliera o settimanale per alcuni mesi, a modo di itinerario: lettura delle Scritture, preghiera dei salmi o della liturgia delle ore, partecipazione alla celebrazione dell’eucaristia (ma senza ricevere la comunione) e a corsi di catechesi per adulti, recita del rosario, pellegrinaggi, digiuno moderato dal cibo e dal divertimento specie in preparazione alla liturgia domenicale, offerte in denaro a poveri vicini o lontani, assunzione di ruoli sociali di servizio nell’ambito delle professione o del volontariato, impegno di perdono e riconciliazione con il coniuge, eccetera. Certo il cammino dovrebbe essere modulato in riferimento alla confessione dei peccati e quindi alla condizione effettiva del penitente.

Risulta chiaro a questo punto che secondo la nostra proposta l’ammissione ai sacramenti non può essere decisa privatamente dal singolo fedele in base a un proprio individuale giudizio di coscienza, ma passa integralmente attraverso la celebrazione ecclesiastica e il ministero sacerdotale.

E ancora, essa non può essere permessa in talune circostanze straordinarie di nuovo decise dal singolo fedele, come la prima comunione di un figlio o le esequie di un parente. Neppure può essere lasciata solo alla decisione prudente del singolo sacerdote. È bene che vi sia una comune e determinata prassi ecclesiastica. 


Alberto Bonandi 
Teologia”Giugno 2006, “Riflessioni sulla prassi ecclesiastica circa l’ammissione ai sacramenti di fedeli divorziati risposati”. 

Commenti

Anonimo ha detto…
a me sembra che questo percorso sarebbe valido se la Chiesa fosse proprietaria e non depositaria della Fede, che è quella che ha avuto compimento con Cristo. è chiaro che la sempre priù profonda comprensione della Parola può aprire a più profonde visioni, ma mai in contrasto con il credo universale. pertanto anche se consapevole del dramma che coinvolge le persone interessate, la Chiesa non ha la facoltà per contravvenire ai dettami di Dio. io stesso sono stato, prima della morte di mia moglie, un divorziato, ma ho scelto di non iniziare alcun altro rapporto per i 9 anni che sono trascorsi tra la separazione legale e la morte di mia moglie. solo così mi sono sentito coerente con la mia vocazione cristiana e la sequela coerente di Cristo. o si crede nelle verità rivelate e nella loro logica di amore verso Dio, o si vuole adattare la fede alle nostre necessità contingenti e/o ai nostri errori. io voglio solo ricordare che Cristo ha detto che il nostro parlare sia si, si, no, no! non ha ammesso un ni o altri tentennamenti o sotterfugi. d0altra parte la misericordi di Dio è infinita, ci ha sempre cercato, saprà pertanto leggere nei nostri cuori la sofferenza per le nostre situazioni. starà a Lui, e non a noi, di valutare correttamente. noi possiamo solo limitarci alla massima comprensione, amore, accoglienza, pur restanto fermi nella fede di sempre, in quanto ripeto la Chiesa, le verità di fede, Dio stesso non è nostro, ma al contrario noi siamo suoi. con l'amore possiamo sperare, credere nel suo perdono. il non poterci accostare alla Comunione sarà una sofferenza, per il vero credente, ma potrebbe anche essere un anticipo del purgatorio, cioè della totale purificazione necessaria per la visione di Dio. Paolo
peppe ha detto…
Sono un separato e questo discorso dovrebbe farmi comodo ... ma mi sembra contrario alla dottrina cattolica. Mi sembra un modo, scusate l'espressione, di farsi fare fessi e contenti.

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