Passa ai contenuti principali

Palla lunga e pedalare


di Giacomo Poggiali

Ero pressoché certo di non andare a votare alle primarie: il clima avvelenato di questi giorni mi ha allontanato del tutto dall’idea di un centrosinistra che si scanna ancorandosi a vecchie dicotomie. I nuovi fan club che con tanta arroganza ho criticato continuano a darmi fastidio.

Poi ho letto cosa ha scritto sul blogospitato da Repubblica il mio amico Andrea Salvati, un ragazzo, anzi un uomo, che sfidando un terreno sterile ha con la sorella tirato su un’impresa nel profondo Sud, in Salento, che si occupa di formazione e di frutti ne porta tanti. Un ragazzo con cui sono orgoglioso di essere in contatto, ma questa è un’altra storia. Perché quando ho letto questo articolo, non avevo neppure letto il nome di chi l’aveva scritto, c’ero capitato per caso.

Tutto ciò che è scritto qui mi ha smosso perché racchiude una testimonianza che è anche la mia. Conosco Bruno Tabacci da quando, a 16 anni, mandando una e-mail ad alcuni parlamentari ebbi la risposta del solo Tabacci. Da allora ci siamo spesso sentiti, e molte volte visti. C’è una cordiale amicizia e reciproca stima che mi onora. Ricordo tante particolarità del politico e dell’uomo Tabacci, perché le due figure coincidono. Dai paragoni divertenti alle espressioni burbere, dalle profonde letture politiche al puntuale fastidio per chi lo ricopre di complimenti. Ma c’è un ricordo che più di ogni altro mi torna in mente: durante un’assemblea, a Roma, sedevo accanto a lui. Si presentò uno dei “vassalli” regionali di quell’assemblea riempiendolo di complimenti e mostrandogli di soppiatto un curriculum di un suo parente, completo di fototessera. Ecco, io lo sguardo sdegnato di Bruno Tabacci quel giorno non me lo dimenticherò mai, e neppure quel signore col curriculum in mano. Uno sguardo che parlava chiaro: chi fa come te mi fa schifo, per farla semplice. Il vassallo scappò lasciando il curriculum sul tavolo e Tabacci con una mano lo spinse via, come se gli desse fastidio quella presenza.

Questo è un piccolo aneddoto, ma c’è di più, c’è qualcosa che riguarda anche me. Perché se è vero che Tabacci non fa favori, non li ha mai fatti neppure a me, per quanto mi abbia sempre rivolto grande considerazione. Non mi ha mai offerto un posto di alcun genere, né cariche politiche né compensi (cosa che altri hanno fatto), semplicemente cercando con attenzione di capire cosa ne pensavo degli sviluppi politici. Ma in questo suo non farmi un favore, di fatto mi ha reso il servizio più grande che si possa offrire ad un ragazzo che si affaccia a questo mondo: mi ha fatto capire il valore della formazione e del rispetto. Perché in cambio, quando mi chiese alcuni mesi fa se potevo dargli una mano per le primarie e gli dissi di no per vari motivi (università e giornalismo in primis), rispettò, certamente con un po’ di dispiacere, questa mia scelta, aggiungendo con un sms in merito a cosa dovevo fare adesso: “Formazione permanente!!!!!!” (e i sei punti esclamativi c’erano davvero…). Insomma, quantomeno gli devo non un favore, ma un grazie, a lui come al mio (vice)sindaco Alessio Mugnai e all’amico e fenomeno del calcio e della politica Alessio Pecoraro. Grazie per avermi non solo fatto capire l’importanza del formarsi, faticare e studiare piuttosto che gettarsi impreparati nella luccicosa e attraente mischia, ma per aver voluto avviare un percorso di formazione continua insieme a me.

Ma queste sono considerazioni personali e dettate anche da un affetto, che è bene a volte anche un po’ accantonare quando si tratta di scelte politiche. Perché il primo dubbio su Tabacci candidato alle primarie l’ho esposto direttamente a lui: non sei un animale da primarie (in cui vince chi ha una sua forte tifoseria, non da chi raccoglie apprezzamenti un po’ dappertutto), non si capisce il senso della tua candidatura, è una candidatura certamente perdente e che brucerà ogni possibilità per te di andare a quello che per tutti è la tua ultima avventura, la regione Lombardia nel dopo Formigoni. Mi rispose via sms: “Ma io non pretendo di vincere. Vorrei solo far sopravvivere un’idea romantica della politica molto lontana dai tatticismi”. E infatti, lasciato l’assessorato al comune di Milano con Pisapia, si getta in questo ginepraio. Oltre al rispetto per questa scelta, rimanevano sempre i dubbi di opportunità politica: cui prodest?

Poi, dicevo dopo questo lungo flashback, ho letto questo articolo. E ho fatto alcuni collegamenti politici: prima di tutto, zero favori significa zero sponsor. E infatti mentre altri raccolgono a destra e a manca finanziamenti e strutture, a Tabacci nessuno gli deve niente. E ugualmente Tabacci non dovrà niente a nessuno. Questo è da tenere presente, secondo me come un dato positivo: se siamo dove siamo è anche per i mille favori, più o meno leciti, che i politici hanno commerciato e noi silenziosamente avallato. Tabacci avrà uno scarso risultato alle primarie anche perché non ha sponsor. Una libertà che si paga, con la faccia, ma che altri non hanno mai conosciuto. Questa è certamente una forma di testimonianza che esiste un’altra politica. Una politica che ha radici nel passato, nella semplicità dei grandi statisti che hanno fatto l’Italia, ma che nel giorno in cui la politica è ridotto allo show di apparati organizzativi o comparsate televisive, è veramente l’unica politica nuova. Molto più nuova degli schemi disperanti che sui territori si ripetono sempre uguali, molto più nuova del replicare quegli schemi sotto la luce di novità dei social network (che Tabacci mi definì come “l’insostenibile leggerezza dell’apparire dei politici”), molto più nuova delle rivoluzioni gattopardesche, in cui si cambia tutto per non cambiare niente: si cambiano facce per non cambiare i meccanismi. Io credo di dovere qualcosa a quella politica gentile, libera, rispettosa e poco redditizia, così lontana dalla politica urlata e artificiale in cui sono cresciuto. Gli devo una Costituzione, una storia, gli devo la riconoscenza di aver dimostrato che la politica non è solo machiavellica, e pertanto credo di dovermi battere perché questa idea torni ad essere l’unica Politica con la P maiuscola.

Ma soprattutto, ciò che di questo articolo mi ha convinto, è un discorso importantissimo sulle responsabilità individuali, che in altri termini il mio amico Riccardo Clementi (che mi ha trasmesso tre grandi passioni: la juve, la politica e il giornalismo) trattava in un bellissimo articolo su ToscanaOggi. “L’Italia in cui mi piacerebbe vivere, insomma, è il Paese in cui gli italiani con il loro voto, si affidano a tanti Tabacci, giovani e meno giovani, che fanno politica sapendo quello che dicono, che hanno il coraggio di dire sempre quello che pensano, e che non fanno regali, sconticini, favori” – leggo nell’articolo su Repubblica, e oltre a farmi sorridere il pensare cosa succederebbe ad esempio in un’Italia con tanti Renzi (primarie tutti i giorni?!), colgo l’importanza sotto a questo messaggio. La gravosa eredità culturale del ventennio berlusconiano è quel “ghe pensi mi” che non cambia se diventa “gnamo, e si fa noi” (con il noi forse al plurale maiestatis). Invece di tentare di approdare nuovamente ad una cultura della responsabilità individuale (che fa il benessere di tutti), ci gettiamo ansiosamente dalle braccia di un leader a quelle di un altro. Siamo un popolo alla perenne ricerca di un leader forte su cui scaricare i nostri sogni, le nostre speranze, il nostro impegno, e anche le nostre colpe dopo, quando le cose non vanno. E non vanno per forza: perché per andare ognuno deve fare la sua parte in libertà e creatività, creando un valore aggiunto alle cose che fa. Faccio un esempio: leggo su molti programmi elettorali slogan come “azzerare il debito pubblico” o “abbattere i costi della corruzione”. Queste due cose, che sarebbero una vera rivoluzione di come gestiamo i nostri soldi, non si fanno da Roma una volta eletti. Perché a segnalare sprechi, inconcludenze, cattive gestioni, a rifiutare mazzette e a ribellarsi a concorsi truffati o favori illeciti poi non ci sarà il presidente del Consiglio. Ci saranno i milioni di italiani che ammetteranno che il debito va pagato, che il fallimento della politica è il fallimento di ognuno: perché mentre qualcuno ci rubava il futuro, noi dormivamo. Ci saranno quegli italiani onesti, piccoli, che sembrano non contare niente ma contano tutto, che vanno a votare dicendo: ti delego a rappresentare le mie istanze, ma non posso appaltarti il mio impegno, o le mie colpe quando questo impegno viene meno, altrimenti crolla tutto.

Senza dubbio, il Paese in cui voglio vivere è quello in cui si fa questo ragionamento ogni giorno, cercando di fare un po’ più bello il posto dove si sta, e non quello dove si cerca qualcuno che faccia per noi o che ci dica come pensare.

Ecco perché alle primarie del centrosinistra andrò a votare e voterò Bruno Tabacci. Anche se prenderà dieci voti, anche se a Pontassieve, terra di scontro tra il Pd di discendenza Pci più forte d’Italia e l’avanzante feudo renziano, lo voterò forse solo io.

E non solo perché credo che il modello sinistra-centro attuato da Pisapia a Milano sia l’unica possibilità di un governo di larga intesa non sullo stile dell’Unione prodiana. E non solo perché credo che sia necessario che chi si candida a governare con spirito maggioritario non possa che riconoscere temi quali la continuità con l’agenda Monti, l’importanza della famiglia così come sancita dalla Costituzione, la costruzione di un’Europa politica. Ma perché è ora di dare un segnale della politica che voglio: quella che guarda alle proprie radici per guardare al futuro, quella che riconosce l’esperienza e fa del ricambio una esperienza non forzata ma continuativa, quella che sa che, come diceva Calamandrei, la nave su cui siamo è di tutti, e o leviamo l’acqua tutti o affondiamo tutti. Uno solo, forte quanto volete, non salva la nave. Insieme, con una figura gentile e dimessa, atipica e seria come “Brunone” Tabacci, possiamo dare un segnale chiaro, piccolo ma appassionato, che questo paese lo vogliamo salvare insieme, ritornando alla semplicità dei corpi sociali, e non all’Italia dei mille presidenti.

Come mi scrisse in un sms: “come all’oratorio: palla lunga e pedalare!!!!”

(Giacomo Poggiali)

Commenti

Post popolari in questo blog

Curzio Nitoglia, un cattivo maestro

di Andrea Virga Questo articolo, come quello su Don Gallo 1 , non avrebbe reale ragione d’essere. Anche qui, le gravi affermazioni dottrinali del sacerdote in questione non meriterebbero più d’uno sberleffo, vista la loro palese incompatibilità con la retta dottrina. E tuttavia, anche qui è il caso di un prete consacrato – e stavolta tuttora vivente – che attira proseliti, specie fra i giovani, grazie alle sue opinioni estremiste ed ereticali, con il risultato di diffondere in lungo e in largo i suoi errori. Per questo, ritengo che sia il caso di dedicare una mezz’oretta a mettere in guardia i meno provveduti, che magari preferiscono internet ad un buon padre spirituale, rispetto a questo personaggio: Don Curzio Nitoglia. Il paragone con Don Gallo, però, non riesca troppo offensivo al defunto sacerdote genovese, che aveva almeno il merito di essere molto attivo in ambito sociale e di non aver mai lasciato la Chiesa (cosa non troppo difficile, visto il permissivismo dei suoi super

Il noviziato Agesci: tempo e idea tra scoutismo e Chiesa

C’è un momento strano nel cammino scout Agesci ed è quello del noviziato: sì, il nome riprende proprio il linguaggio monastico; sì, l’ispirazione è proprio quella; sì, è un periodo di introduzione e studio.  Si tratta del primo momento nella branca rover e scolte, i più grandi nel nostro scoutismo: dura un anno. Di noviziato in Agesci si parla  –  e si sparla  –  in continuazione, non c’è un tema altrettanto trattato e maltrattato, anche nella prassi.È speciale e irrinunciabile e può essere una fonte di riflessione importante anche al di fuori dell’associazione. Cercherò ora di dare a questa riflessione un taglio ecclesiale, per plasmare un avvio di confronto su temi scoutisticamente ed ecclesialmente poco trattati. Il noviziato è un tempo e come tutti i tempi è prezioso. Lo è il nostro, figuriamoci quello dei ragazzi. Con un po’ di ironia, potremmo dire che l’importanza del tempo l’ha capita anche il Papa: in Evangelii Gaudium Francesco scrive che «il tempo è superiore allo

Lettera a frate Raimondo da Capua: l'esecuzione di un condannato a morte

È una lettera al frate che fu direttore spirituale di Caterina e che poi divenne suo seguace. Vi si racconta in modo appassionato e sconvolgente l’assistenza a un condannato a morte, Nicolò di Toldo,giustiziato a Siena per aver partecipato a un movimento di rivolta nel 1375 circa. Il condannato, travolto dall’entusiasmo mistico di Caterina, finisce con l’accettare con letizia la morte come momento di congiunzione – anzi, di nozze – con la divinità. Il consueto motivo devoto del sangue di Cristo si fonde qui con quello del sangue della decapitazione. Il sangue del giustiziato alla fine si riversa sul corpo della santa: nella fusione del sangue di Nicolò con quello di Caterina e con quello di Gesù si realizza l’unità mistica dell’uomo con Dio. Al nome di Gesù Cristo crucifisso e di Maria dolce. A voi, dilettissimo e carissimo padre e figliulo mio caro in Cristo Gesù. Io Caterina, serva e schiava de' servi di Dio, scrivo a voi e racomandomivi nel pretioso sangue del Figliuolo di